Le ultime vicende di cronaca giudiziaria ci consegnano un quadro paradossale, oltre che drammatico, della condizione femminile e del grado di tutela giuridica della donna.
Le sentenze di Genova, Bologna e Ancona ci mostrano plasticamente quanto l’applicazione delle norme sia spesso in contraddizione con il comune sentire e quanti limiti anche etici sono ivi contenuti. Il rito abbreviato, il riconoscimento delle attenuanti e lo sgravio di pena riconosciuto per buona condotta, strumenti normativi introdotti per tutte le fattispecie di delitti, sostanziano quella sensazione generale di impunità che spesso accompagna l’esito dei processi.
I fatti omicidiari, su cui si sono pronunciati i competenti tribunali di Genova e Bologna, hanno scatenato polemiche e sdegno rimbalzando sui social, come ormai da prassi, con fiumi di accesi e feroci commenti non di orde di vetuste femministe, ma di tanta gente comune che stenta a riconoscersi in quegli atti decisori.
Questo clima di acceso dibattito ha spinto l’ANM ad affermare che l’estrapolazione artificiosa di parti della sentenza, scollegata dal contesto logico-giuridico ed argomentativo, aizzi l’opinione pubblica contro l’esercizio giurisdizionale. Premettendo che sia giusto e doveroso rispettare le sentenze, rileviamo sia sempre consentito e utile l’esercizio di critica anche al fine di contribuire ad un dibattito aperto sui limiti e le criticità della legislazione di specie e sul difficile ruolo decisorio dei giudici chiamati ad applicare la legge.
Evitando di entrare nei farraginosi meandri dell’esegesi giuridica e dei suoi tecnicismi, è indubbio che un atto omicidiario presenta sempre una “pesatura” da parte della potestà giudiziale (colposo, preterintenzionale, volontario…), ma il femminicidio non è un genere di omicidio ma un “omicidio di genere”: la donna è, al contempo, vittima e movente, un connubio nefasto di causa-effetto. Il femminicidio é anche un omicidio “del genere” poiché l’annientamento fisico di una donna per “una spinta di ardente passionalità o burrascosa e incontrollata emotività”, diviene annichilimento della dignità, dell’integrità e della libertà di tutte le donne.
Sebbene le sentenze debbano essere valutate nella loro complessa formulazione, è indubbio che talune espressioni linguistiche trascendono le valutazioni tecnico-giuridiche e innescano previsioni etiche e culturali sulla condizione delle donne e sul ruolo a cui esse sono ancora oggi relegate.
La dichiarazione contenuta nella sentenza della Corte di Appello di Ancona (lo scorso 5 marzo la Suprema Corte di Cassazione l’ha annullata e rinviato il pronunciamento ad altro tribunale), che ha assolto due uomini dall’accusa di stupro di una ragazza ventiduenne, lascia sgomenti: secondo il collegio giudicante (composto peraltro da sole donne), la mascolinità e la scarsa avvenenza della donna, avrebbero inibito di fatto l’atto di violenza. Questo pronunciamento appare un pericoloso precedente in tempi e in democrazie ove si palesa un preoccupante arretramento culturale, dove le donne vittime di abusi, vessazioni, violenze, sono spesso colpevolizzate invece che difese e tutelate.
Occorre potenziare gli strumenti di tutela e sostegno alle donne vittime di violenza, creare percorsi di accompagnamento, anche economici oltre che psicologici e legali, per consentire una vera emancipazione delle donne dai loro aguzzini; nel frattempo, confidiamo in una nuova etica del linguaggio anche nei pronunciamenti giudiziari, affinché chi usa violenza sulla donna sia condannato (anche) moralmente e non la sua vittima.
Carolina Luzzi, segretario CGIL Pollino Sibaritide Tirreno politiche di genere e pari opportunità